Relazione di S.E. Mons. Nunzio Galantino all’VIII Convegno Internazionale

“La misericordia: germe divino che cambia la storia”

S.E. Mons. Nunzio Galantino

Segretario Generale della C.E.I.

Trascrizione da registrazione audio, non rivista dall’Autore

Titoli aggiunti dalla redazione

Mi avete invitato e ho accettato volentieri di stare con voi. Voglio mettere in comune con voi qualche riflessione che – almeno lo spero – possa aiutarci in maniera realistica, e per questo tante volte ancora più faticosa, a rispondere all’appello che il Signore, attraverso papa Francesco, ci rivolge con l’indizione dell’anno giubilare.

La sfida dell’anno giubilare

e un contesto culturale che non considera la misericordia una virtù

Proprio l’indizione dell’anno giubilare della misericordia può essere a ragione ritenuta una delle tante sfide che papa Francesco ha lanciato, sta lanciando, al mondo contemporaneo. E anche questa, come tutte le sfide, è una di quelle che sono state accolte con entusiasmo dentro e fuori la Chiesa, ma è anche una sfida che, come tante altre volte, viene contestata anche all’interno della Chiesa, almeno da alcune frange abbastanza identificabili.

Quindi l’indizione, attraverso la bolla “Misericordiae Vultus”, dell’anno giubilare della Misericordia, da una parte sta incontrando grande entusiasmo e grande attenzione, soprattutto presso coloro che ne hanno colto la forza che sprigiona per la nostra storia, la luce che può diffondersi attraverso l’esperienza diffusa di esercizi di misericordia; dall’altra, però, non possiamo negare che sorprende il riconoscere all’esercizio della misericordia la forza di un germe che trasforma la storia, che mette in discussione cioè logiche date per acquisite – perché la trasformazione è questa. Sorprende soprattutto se si tiene presente il contesto culturale prevalente nel quale noi viviamo e nel quale ci troviamo a parlare di misericordia.

Attenti, però, a non pensare che tutti la pensino come me e come voi. Non tutti battono le mani quando papa Francesco invita con forza, anche nelle scelte più difficili, a mantenere lo stile evangelico dell’accoglienza e della misericordia. La nostra cultura odierna – quella dei media, ma quella anche diffusa – è una cultura che non è favorevole alla misericordia, non la considera una virtù. Lo notava già Giovanni Paolo II, nella sua enciclica “Dives in Misericordia”.

Io penso che sia importante prendere coscienza di queste cose, altrimenti finiamo con l’utilizzare un linguaggio – come dicono S. Ignazio e i Gesuiti – “ad usum nostrorum tantum” (cioè: “noi ce la cantiamo e noi ce la fischiamo”). In altri termini: noi diciamo che è importante la misericordia, però poi usiamo una misericordia più o meno “abborracciata”. Abbiamo bisogno di capire qual è il contesto nel quale il Papa ha lanciato questa sfida, per capire anche il linguaggio, la forza dei gesti che noi dobbiamo saper maturare come esperienza di Chiesa, perché in un contesto come il nostro si possa parlare a ragione di misericordia e la si possa veramente ritenere uno stile di vita evangelico, ma capace di capovolgere le logiche dominanti, di incidere seriamente sul modo comune di pensare.

Ebbene, Giovanni Paolo II aveva chiara coscienza di quello che la cultura contemporanea pensa della misericordia, quando nella “Dives in Misericordia” scriveva: «La mentalità contemporanea… sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì a emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia».

La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo, il quale grazie all’enorme sviluppo della scienza e della tecnica è diventato padrone e ha soggiogato e dominato la terra. Qual è l’ideale proposto oggi dalla cultura contemporanea, ideale con il quale noi costantemente ci incontriamo (e anche ci scontriamo)? L’ideale proposto all’uomo contemporaneo è quello di vincere ogni sorta di sfide tecniche, essendo l’uomo ideale il più forte in ogni circostanza, sempre vittorioso.

La preoccupazione della cultura contemporanea, quella che viene trasmessa, è che bisogna fare tutto quello che è necessario per non rimanere fuori da una cultura che concepisce la vita come una lotta. Chi vince, vive; i deboli sono già quasi morti, comunque inesistenti. L’uomo immaginato dalla cultura contemporanea trae da sé la propria forza, tra da sé le proprie capacità, senza dipendere da nessuno, non teme niente e nessuno.

Si dice invece, sempre nella nostra cultura, che il misericordioso non sperimenta un atteggiamento positivo, ma negativo: non è “uno buono”, non è insomma uno del quale fidarsi. Questa è la mentalità contemporanea. La sua virtù non sarebbe mai una virtù attiva, ma reattiva. Sapete tutti che in questo contesto culturale l’atteggiamento misericordioso è concepito così, in fondo riproponendo il modello di Nietzsche, il quale sosteneva che la misericordia è debolezza, che è anzi il massimo pericolo. L’uomo – diceva Nietzsche, e la cultura contemporanea ancora porta avanti questo modello –deve essere forte e attivo.

I frutti della misericordia fanno sentire il loro effetto nella storia

È questo il contesto culturale oggi prevalente e che sta segnando la nostra storia, una storia proprio per questo – ci dice Francesco – bisognosa di misericordia. Perché? Perché il termine “misericordia” significa “cuore misero”, cioè un cuore che si apre alla miseria altrui, che vive senza ignorare le difficoltà dell’altro, che coltiva questa disposizione etica, questa disponibilità spirituale.

Potremmo dire che il misericordioso è un uomo empatico. Dio è il misericordioso per eccellenza, non solo perché aspetta il figlio prodigo e fa festa quando questo torna a casa, ma soprattutto perché Gesù partecipa alla sorte umana e si mischia con la nostra sorte, che gli appartiene. Non è solo una realtà alla quale dare consolazione, dare luce – e non è poco – ma gli appartiene. La persona misericordiosa non è solo quella che “compie” gesti di misericordia, ma quella che sente l’altro appartenergli, “che sente male al petto per l’altro”, come diceva Emmanuel Mounier. Gesù partecipa alla sorte umana dalla sua nascita alla sua morte. Per questo noi nel Salmo 86 preghiamo: “Tu sei buono, Signore, e perdoni, sei pieno di misericordia con chi ti invoca”, con chi apre il suo cuore verso di te.

Sono certo che il tema che avete scelto quest’anno, lo avete scelto proprio per rimanere in maniera seria e consapevole all’interno di questo anno giubilare. E penso che tutti vogliamo stare dentro l’anno giubilare non solo fisicamente, “temporalmente” (cioè in maniera cronologica): vogliamo starci soprattutto cercando di ricavarne qualche frutto spirituale.

“Spirituale”, per quel che mi riguarda, non vuol dire “campato in aria”, e quindi tutto sommato secondario, perché in fondo inutile. È mentalità diffusa che si possa vivere anche senza riferimento a ciò che è spirituale. Allora i frutti spirituali ai quali io mi riferisco, e che dobbiamo cercare di ricavare dal nostro vivere dentro l’anno giubilare della misericordia, sono quelli che fanno sentire il loro effetto nella nostra vita, che riguardano la nostra vita. Germe di rinnovamento della storia, germe che trasforma la storia. I frutti devono essere frutti che riguardano la vita concreta, che interessano le nostre responsabilità, la storia nella quale noi siamo inseriti: le nostre comunità parrocchiali, i nostri paesi, la nostra regione, devono accorgersi che c’è un popolo che sta facendo esperienza di misericordia. Non possiamo farlo soltanto nei nostri piccoli circoli più o meno ben pensanti; si deve vedere che sta succedendo qualcosa, altrimenti quel titolo, “germe che trasforma la storia”, rimane un bel titolo: simpatico, accattivante, ma nulla di più.

La Chiesa esiste per essere il segno efficace della misericordia di Dio

L’anno giubilare deve essere un’opportunità per essere più uomini, più donne, per farci crescere anche da questo punto di vista. È quello che il Papa ha voluto fare indicendo l’anno giubilare della misericordia: invitare la Chiesa, la nostra Chiesa, ad essere sempre più la Chiesa di Gesù Cristo, quella comunità che Lui ha radunato intorno a sé e che grazie allo Spirito è andata al di là dei progetti umani. In altri termini, è come se papa Francesco, volendo dare una scossa salutare alla Chiesa, abbia voluto riportarla al centro della sua natura.

Quando fu presentato il libro “Il mio nome è misericordia”, Roberto Benigni, con una espressione simpaticamente cinica, volendo descrivere quello che di grande sta facendo il Papa, dice ad un certo punto: «Sta facendo una cosa grandiosa, sta riportando la Chiesa al cristianesimo!». Ecco, è come se il Papa avesse detto questo, indicendo l’anno giubilare, come se non avesse trovato niente di meglio che riportare la Chiesa al centro della propria natura, ricordarle cosa la fa essere davvero la Chiesa di Gesù.

Nella bolla “Misericordiae Vultus” il Papa non chiede una nuova strategia pastorale, magari tarata sulle esigenze dei nostri tempi: l’anno giubilare della misericordia vuole solo riportarci al centro, al cuore, del nostro essere Chiesa. Noi stiamo in questo mondo per questo, per essere misericordiosi come il Padre, in un mondo che non considera la misericordia una virtù, ma una debolezza, una fragilità (come leggiamo in alcuni scrittori o sedicenti giornalisti nostrani).

È importante rendersi conto di questo: noi siamo qui per essere misericordiosi come il Padre. Quel “come il Padre” lo ha messo in atto prima di tutto Gesù e vuole che i suoi discepoli facciano altrettanto. Possiamo dire che l’esercizio della misericordia è il criterio ultimo per essere riconosciuti da Gesù come suoi discepoli (ce l’ha detto con chiarezza Lui stesso nel capitolo 25 di Matteo). Noi come Chiesa esistiamo unicamente per questo, per essere nel tempo e nel nostro mondo segno efficace e memoria viva della misericordia del Padre.

Ricordare che la Chiesa esiste per essere il segno efficace dell’amore di Dio per l’umanità, ci riempie di responsabilità, oltre che di gioia, perché la carità di Dio deve davvero splendere su di noi, in mezzo a noi. Chi ci incontra deve fare realmente esperienza della vicinanza del Signore che ci ha salvati, non di uno che “gli riempie o le riempie la testa”. Chi ci incontra deve fare realmente esperienza di vicinanza e noi dobbiamo imparare a recuperare, anche nelle nostre catechesi, una qualità umana alta.

Attenti alla foga neoilluministica che sta attraversando certa nostra pastorale! Chi ci incontra deve poter fare esperienza di un Dio che ci sta vicino, possibilmente anche in silenzio in certi momenti, ma che ci sta vicino; deve poter toccare con mano il suo amore attraverso di noi, rimanendone avvinto, colpito.

Questa responsabilità che il Signore ci affida è grande, noi non sempre ne siamo degni, per questo il Signore non si stanca di ricaricarci. Lo fa attraverso eventi straordinari, come la presenza, i gesti, le parole di papa Francesco. Ma il Signore ci ricarica anche attraverso esperienze meno eclatanti, ma ugualmente importanti. Egli effonde con abbondanza il suo Spirito in noi, in modo che la Chiesa sia realmente il luogo dove la misericordia di Dio diventa tangibile e dove – come gli uccelli sull’albero della parabola evangelica – ci si può rifugiare per trovar ristoro. Le nostre saranno comunità “di” misericordia, comunità misericordiose, nella misura in cui chi ha bisogno troverà aperto il cuore, prima delle porte, con tutta la fatica e con tutti i rischi che questo comporta.

La Bibbia, il racconto della misericordia di Dio che si fa storia

Tutto questo non è altro che trasferire in maniera coraggiosa, sine glossa, l’evangelo, quello che la Scrittura è, vuole dirci e vuole darci. La Bibbia è racconto di misericordia. Essa narra una storia di amore, fatta di promesse e di rimproveri, di fedeltà e di tradimento – tradimento da parte di uno solo di due contraenti, ovviamente. È una storia, non semplicemente nel senso che è una vicenda narrata, ma molto più perché si è realizzata nella storia concreta dell’umanità.

Molte volte noi questo lo dimentichiamo, perdiamo questa dimensione “carnale” della storia di cui siamo parte. La Scrittura non rappresenta un insieme di comandi, né di massime per agire bene, ma è anzitutto un racconto, una testimonianza, veicolata dalla fede, di ciò che Di ha compiuto facendo suo un popolo e mandando il suo Figlio, con un unico obiettivo: incontrare e salvare gli uomini.

Quando papa Francesco ci invita ad essere “Chiesa in uscita”, ci invita sostanzialmente a riprodurre dentro di noi, dentro le nostre strutture, dentro i nostri progetti, l’atteggiamento di Dio che “esce”. Esce per incontrare e per farsi incontrare. Attenti a non trasformare quello della “Chiesa in uscita” in un nuovo slogan, (ne abbiamo già troppi, anche dentro la Chiesa!) deresponsabilizzante e rassicurante.

“Chiesa in uscita” è uscire dalle nostre strutture, ma anche dalla retorica: una Chiesa in uscita anche dai luoghi comuni, dal “politicamente corretto”. Altrimenti non siamo credibili.

La chiave interpretativa della Bibbia è la misericordia. In ogni sua pagina essa va letta e compresa come il tentativo da parte di Dio di conquistare il cuore del suo popolo e di farlo tornare a Lui. Anche quando ci sono rimproveri e minacce, o quando si descrivono guerre o atti che paiono troppo crudeli o quasi violenti, è l’amore che emerge e fa comprendere perché Dio possa essere duro con Israele, come fa un padre per il bene del figlio, o come uno sposo o una sposa che, di fronte al tradimento, all’umiliazione, cerca di provocare il pentimento dell’amato o dell’amata. È questa la trama unitaria del Libro Sacro.

La stessa Scrittura, che riecheggia ogni domenica e ogni giorno nella liturgia della Chiesa, deve essere accolta con fede e spiegata con profondità, avendo cura soprattutto di cogliere e di far emergere questa unitarietà del disegno di Dio, che ha un unico obiettivo: la ricerca dell’uomo e della donna peccatori, che si sono fatti prendere dall’indifferenza, dall’appiattimento.

La Parola trasforma veramente certi progetti ripetitivi, che sono ormai solo delle emissioni di suono ma non sono vita, non toccano la vita. Il modo in cui leggiamo la Scrittura – io voglio insistere su questo, sapendo l’attenzione che il Movimento Apostolico dà alla Parola di Dio – il modo in cui leggiamo la Scrittura, e quindi pensiamo Dio, è fondamentale per la nostra vita di fede e per la vita della Chiesa.

No alla mentalità manichea: tenere uniti giustizia e misericordia, anima e corpo

Troppo spesso si è data del Dio biblico un’immagine distante o fredda, quasi fosse impassibile e calcolatore, mentre solo in Gesù si manifesterebbe la misericordia di cui l’uomo ha bisogno. Sapete tutti che questa è la logica manichea, un’antica eresia, elaborata nel III secolo, che oppone al Dio severo e giudice dell’Antica alleanza il Dio mite della Nuova.

Questa lettura errata porta l’uomo a temere Dio e, come sappiamo dal servo che ha ricevuto un solo talento, la paura verso Dio non produce una positiva intraprendenza. Io ho i miei sospetti di fronte a certe proposte, anche pastorali, anche religiose, che puntano tutto sulla paura. Non si va da nessuna parte con la paura. La paura paralizza soltanto, non mette fuoco dentro, non mette energie nuove dentro di noi. È l’amore, è la misericordia che ci muove veramente. La paura genera chiusura in se stessi, genera un’ossessiva difesa della propria posizione, per quanto debole possa essere, invece che uno slancio di donazione e di generosità.

L’errore della concezione manichea, da sempre rigettata dalla Chiesa, ma che tende a riemergere sotto varie forme, è la contrapposizione tra la giustizia e la misericordia. La prima, la giustizia, apparterrebbe al Dio del primo patto; la seconda, la misericordia, a Cristo, che istituisce un nuovo patto basato su altri principi. Bene, questo scollamento tra le due alleanze e i due criteri, cioè la giustizia e la misericordia, fa del Dio dell’Antico Testamento un Dio senza bontà e di quello del Nuovo Testamento un Dio così docile da diventare in fin dei conti irrilevante.

Non solo la giustizia senza misericordia diventa invivibile, perché troppo esigente e severa, ma anche l’amore senza giustizia risulta disumano, perché incapace di salvare. La salvezza esige sincerità, il riconoscimento delle colpe, e quindi la luce della verità.

In Dio la misericordia non contrasta con la giustizia, ma è un tutt’uno con essa. Certo, ci sfugge il modo preciso in cui esse siano unite nel cuore di Dio, perciò facciamo fatica, perché non siamo Dio. In Lui la giustizia e la misericordia sono unite; noi facciamo fatica, giorno per giorno dobbiamo cercare di equilibrare queste due realtà e dobbiamo chiedere al Signore il dono dell’equilibrio in tutto questo. Non risolviamo i problemi tenendo separate queste due realtà.

Noi purtroppo molte volte viviamo questa frattura, questa contrapposizione tra la giustizia e la misericordia, tra lo spirituale ed il terreno. La nostra salvezza non passa dal disprezzo del corpo e delle realtà terrene, per dedicarci interamente a quelle spirituali. A queste ultime non ci dedichiamo semplicemente quando siamo in Chiesa o quando preghiamo, ma anche quando visitiamo una persona malata, quando una mamma prepara il pasto per la sua famiglia o quando il bambino gioca con gli amici.

Tutte le realtà della nostra vita, la “storia” della nostra vita (di cui si parla nel titolo), tutto ciò che le appartiene è spirituale, a patto che viviamo queste realtà nella ricerca del bene e ricordandoci di Dio; in una parola, che le viviamo con amore.

Si giustifica così e trova qui il suo fondamento il richiamo e l’invito del Papa a vivere con più impegno le opere di misericordia corporale e spirituale. In che modo la Chiesa è luogo di misericordia? A quali condizioni? Tenere uniti l’anima e il corpo, lo spirituale e il materiale. Rinunziare a un modo manicheo di pensare e di vivere porta con sé il compito di prenderci cura dei fratelli che soffrono, come ha fatto Jahvè, il Santo, e come ha fatto Gesù.

Misericordia che cambia la storia: sintonizzare il cuore con il bisogno dell’altro

Attenti, perché quello che Gesù racconta nella parabola del samaritano può ancora far sentire i suoi malefici effetti nelle nostre comunità, nelle nostre realtà. Quel levita e quel sacerdote che devono raggiungere il tempio e non hanno tempo, non possono essere distratti dalla fatica di vivere del malcapitato: questo può capitarci, questo può capitare alla nostra Chiesa.

Ogni fratello che porta in sé delle ferite, che ci chiedono di non essere ignorate, è un appello imprescindibile per noi. Tante persone versano in condizione di tale povertà, o emarginazione o solitudine, che richiedono con urgenza che ci mobilitiamo per raggiungerle e soccorrerle. In esse – non dobbiamo dimenticarlo mai – è presente Gesù (Mt 25, 40). Non si tratta solo di compiere delle opere buone, in quanto questo farebbe parte, insieme ad altro, della vita cristiana. Si tratta invece di riconoscere il Cristo che patisce nei fratelli e andare subito da Lui, dalla Sua carne sofferente. Se agissimo veramente in questo spirito, come Gesù ci chiede, quanto bene riusciremmo a sprigionare di più, come Chiesa! Riusciremmo anche a neutralizzare tante realtà negative che, ahimè, esistono anche in mezzo a noi.

Dovremmo vedere il Signore nei poveri, che agli occhi di alcuni “ci invadono”, ma in realtà sono in cerca soltanto di una vita più dignitosa e sicura, la stessa che tutti desidereremmo. Non possiamo ignorare le condizioni dei luoghi da cui fuggono, né sperare semplicemente che smettano di venire o si riesca a porre argini al loro arrivo. Si richiede per questo tempo uno sguardo più profondo, attento e solidale, che non si chiuda nel timore e nell’egoismo, così contrari allo spirito evangelico.

Questo atteggiamento, che è l’atteggiamento della misericordia, può trasformare la storia. Ma a quali condizioni? Che andiamo contro corrente, che la pensiamo diversamente da chi considera un fastidio chi sta arrivando ora sulle coste della Calabria, della Sicilia o altrove. Finché noi questo lo proveremo come disagio, finché non vedremo l’ora che questa cosa finisca, vorrà dire che noi non siamo adatti…

Siamo adatti per fare una bella meditazione, ma non per dare una spinta nuova alla storia. Avete visto cosa ha fatto il Papa sabato scorso, andando a Lesbo? Capite cosa è successo? Nell’agenda di un papa, che sicuramente è un’agenda molto fitta (e questo ve lo posso assicurare), ad un certo punto c’è un fatto che lo interpella: tutto va in secondo piano. Vado lì. C’è la concretezza, la storia che mi interpella. E io compio un gesto che scatena quello che ha scatenato. Avete sentito le reazioni? Mica tutti hanno battuto le mani! Addirittura son tornate quelle affermazioni insulse, fuori della storia, in base alle quali la Chiesa che fa accoglienza favorisce l’immigrazione, dimenticando che l’unico fatto che scatena l’immigrazione è lo star male di alcune persone.

Qualche giorno fa, andando al mio paese, a Cerignola, ho incontrato due ragazzini egiziani che sono stati affidati a una comunità educativa che seguo, perché legata alla mia vita di parroco. Si vedeva la tristezza nei loro occhi. Ho parlato con loro e mi hanno raccontato che sono stati mandati in Italia dai genitori, da soli. Chi è questo papà, questa mamma, che prende un figlio – uno di dodici, l’altro di quindici anni – e li manda altrove, se non sa che dove sta c’è soltanto l’alternativa o della morte o di andare a fare il bambino soldato?

Cosa facciamo noi di fronte a queste realtà?

Cambiare la storia vuol dire questo: avere il cuore – inteso non soltanto come luogo degli affetti, ma come luogo di decisione – sintonizzato con il bisogno dell’altro, con la tragedia dell’altro; sentire “male al petto” per quello che sta vivendo l’altro.

Quando avremo uno, cento, diecimila, dieci milioni di persone che la pensano così, allora la misericordia – il cuore orientato, sintonizzato con il male che l’altro sente – diventerà germe che trasforma la storia. Ma finché giochiamo a rimpiattino con chi, per spirito di perbenismo soltanto o di egoismo sfrenato, non vuole essere disturbato, noi non contribuiremo a cambiare la storia. Faremo tante cose belle, simpatiche, ma non contribuiremo a cambiare la storia.

La liturgia, fulcro propulsore della misericordia che cambia la storia

Adesso forse vi sorprendo un po’. Se dovessimo dire da dove cominciare, o qual è uno dei luoghi principali, per fare di noi stessi delle persone capaci di cambiare la storia, perché misericordiose, io vi dico che il primo luogo non è il centro Caritas, è la liturgia. La liturgia è un ambito fondamentale della vita della Chiesa, ma può diventare tutto: può diventare il luogo nel quale veramente maturano atteggiamenti seriamente evangelici, ma anche il luogo in cui alcuni replicanti senza scrupolo fanno di tutto, facendo passare per liturgia quello che è vuoto teatro.

La liturgia è un ambito fondamentale nella vita della Chiesa. L’ambito nel quale la Chiesa vive, celebra e manifesta la misericordia. La liturgia è il centro della Chiesa, così che da essa continuamente scaturisce, come da un fulcro propulsore, ogni altra attività. In tutta la liturgia, ci insegna il Vaticano II, e soprattutto nell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione. Nella liturgia siamo messi a contatto con l’evento pasquale di Cristo.

Sono frasi che forse abbiamo imparato a memoria e chissà quante volte le ripetiamo. Ma cosa è l’evento pasquale di Cristo? Cosa altro è se non la sua nascita, il suo aver camminato per le strade della Palestina, privilegiando certe relazioni e non altre, dicendo certe parole e non altre?

Noi nella liturgia incontriamo il Cristo che ci dice questo. La liturgia non può essere altro, non dobbiamo farne altro. Dobbiamo interrogarci su quale sia l’immagine di Chiesa che emerge dalle nostre celebrazioni, che sono uno specchio di quello che noi siamo. Se siamo dei teatranti nella vita, le nostre liturgie saranno teatri. Se siamo gente misericordiosa, cioè con il cuore continuamente rivolto al bisogno del fratello, anche dalla liturgia emergerà tutto questo. Dobbiamo chiederci: chi ci vede, magari per la prima volta, sperimenta l’accoglienza?

Mi rivolgo a noi sacerdoti: attenti che le nostre chiese devono essere per prima cosa accoglienti nei confronti di tutti, di tutti. Ricordo un parroco che con foga, con una voce quasi come quella di Mazzolari, diceva: “il parroco sono io!” (la voce, ma non il cuore di Mazzolari!). “Il parroco sono io!”. E allora? “Io decido chi deve entrare!”. Ma dove? Noi non siamo i cani ringhiosi davanti alla porta del cuore del Padre. Non siamo stati ordinati per questo.

Chi ci vede, soprattutto chi ci vede per la prima volta, si accorge di questo? Sperimenta l’attenzione data agli ultimi, ai poveri? Percepisce che ci vogliamo bene e cerchiamo di perdonarci a vicenda, camminando nella fraternità? Oppure può avere l’impressione che quelle che si trovano siano persone che si conoscono poco, o addirittura si ignorano o si giudicano, che non compiono un itinerario di fede comune, ma solo casualmente si siedono accanto? Se la liturgia, i suoi luoghi, i suoi tempi, non sono ambiti nei quali noi viviamo questa realtà, tutto quello che ho detto fin qui sono chiacchiere, non servono, perché la parola detta va interiorizzata, ma va soprattutto sentita come parola della quale il Signore ci fa dono in certi momenti particolari.

La liturgia deve essere prima di tutto missionaria e aperta. Al suo centro, l’Eucaristia non è il luogo dell’intimità intra-ecclesiale e della chiusura al mondo: non esistono le “messe per noi”, le messe “per i nostri”. Facciamo altro, ma non l’Eucaristia. Per questo dobbiamo valorizzare anzitutto le nostre celebrazioni, vivendole in un modo attivo, partecipe, accogliente, inclusivo.

Preoccupiamoci di più, nelle nostre comunità, associazioni e movimenti, di quanti sono impossibilitati a partecipare alla liturgia, in modo da facilitarne la partecipazione. Questa è misericordia: portare loro la comunione eucaristica, raggiungerli con un segno di amicizia e di fraternità.

Penso che investire sulla liturgia sia importante, in modo che essa sia attenta alle periferie. Fare in questa maniera significa celebrarla più spesso proprio dove si trovano le persone, soprattutto quelle che non hanno la possibilità di incontrare il Signore nell’Eucaristia e nella Parola.

Una Chiesa di misericordia è una Chiesa più libera

Una Chiesa che vive così è una Chiesa più libera. Lo è di più davanti alle istituzioni umane, nei confronti del pensiero di chi la osserva e la critica, e anche verso se stessa, perché meno toccata da un’insana ansia di prestazione che la faccia apparire alle realtà mondane.

Questa mattina il Papa ce lo ha ricordato: l’apparenza. Attenti perché uno dei limiti che noi potremmo avere come Chiesa è proprio questo: l’apparenza, il poter contare, il poter – forse anche inconsciamente – presentarci al mondo come un potere accanto ad altri poteri. Quando facciamo questo, non siamo la Chiesa di Cristo. Quando facciamo questo, diventiamo irrilevanti; facciamo rumore, ma diventiamo irrilevanti.

L’augurio che faccio al Movimento, alle vostre chiese diocesane, ai confratelli, è quello di coltivare dentro di voi un cuore misericordioso, un cuore cioè particolarmente attento agli ultimi, a chi ha bisogno veramente.

L’augurio di non lasciare mai andare via nessuno dall’incontro con noi senza avergli fatto toccare con mano quanto il Signore, attraverso di noi, gli vuole bene.