La testimonianza di una psicologa

 

Uno sguardo d’amore sull’umanità ferita

 

“…dei morti in battaglia ti porti la voce, chi diede la vita ebbe in cambio una croce…” (F.De André)

 

Le canzoni quando si fanno portatrici di tematiche universalmente condivise si prestano in ogni epoca e ad ogni latitudine ad interpretazioni che lasciano affiorare in maniera cosciente le emozioni che attraversano l’animo umano. La vita e la morte sono esperienze universalmente riconosciute, rappresentate spesso in duello quando in realtà sono una parte integrante l’una dell’altra. È un concetto difficile da cogliere per noi esseri umani, sia su un piano meramente cognitivo che su uno più emotivo e profondo. L’orizzonte della nostra finitezza umana, da una prospettiva prettamente psicologica è ciò che dà senso alla nostra esistenza. La vita acquista valore e persino bellezza nella misura in cui è costantemente in rapporto con la morte.

Ma la logica spinge gli esseri umani ad una estenuante ricerca di “senso” su questa terra: dare un senso ai giorni, dare un senso alle relazioni interpersonali, dare un senso ai propri obiettivi. In questa ricerca, spesso affannosa, è facile dimenticarsi della propria condizione mortale. Si vive infatti come se si fosse immortali, come se ci fosse un “per sempre” terreno, una sicurezza matematica di avere un domani. Un domani per migliorare, un domani per dimenticare, un domani per perdonare, un domani perfino per amare. Tutto questo funziona per la psiche fino a quando la quotidianità non viene sconvolta da eventi imprevisti, drammatici, destabilizzanti. Un lutto, la perdita del lavoro, una malattia, l’abbandono riportano l’uomo ad una condizione di fragilità; l’equilibrio precario che si era creato vacilla, si abbassano le difese psicologiche, si diventa vulnerabili, si soffre, si sperimenta la paura. Si prova in questi momenti ad appellarsi a tutte le risorse disponibili: gli affetti familiari, gli amici, lo spirito di intraprendenza, la volontà, per chi ha fede la preghiera.

A volte pero’ non basta. Le ferite dell’anima sono profonde e invisibili, scavano solchi difficili da immaginare. Molto spesso si fa fatica ad esprimere a parole l’angoscia, la disperazione, la paura, specialmente in un mondo dove l’apparenza domina la scena: in un mondo globalizzato che richiede bellezza, gioventù, ricchezza e sfacciatagine, stare male è una colpa, addirittura una vergogna. Stare male è il segnale tangibile del “non avercela fatta”, di essere deboli, inferiori, non adatti, mai abbastanza. “Domani andrà meglio”, “ce la posso fare”,”lo tengo per me”, “a chi vuoi che importi?”… e con questo groviglio nei pensieri e nel cuore ognuno combatte come puo’ la sua personale battaglia. L’inconscio personale gioca le sue carte: si viene spinti incosapevolmente ad agire il dolore e molto spesso con meccanismi che fanno sentire di essere in una ruota da criceto; si corre, ci si affanna ma si è persa la direzione, si è smarrito il “senso” di quel correre, lo si fa perché è quello che gli altri si aspettano. La depressione, il panico, l’ansia possono prendere il posto della serenità e spesso ci vuole un aiuto professionale per uscire da questo tunnel.

Gli psicologi, gli  psicoterapeuti, gli psichiatri sono professionisti della salute mentale che conoscono il funzionamento dei meccanismi mentali, ne riconoscono gli schemi disfunzionali, aiutano le persone a ricalibrare gli eventi traumatici e in generale la sofferenza in un nuovo sistema di senso. Esse sono figure non giudicanti, accoglienti che lavorano in un tempo sospeso tra la realtà e il mondo intrapsichico. Aiutano le persone a ritrovare la continuità nel percorso interrotto tra i bisogni, le emozioni e la quotidianità. Aiutano a riattivare le risorse sane fornendo strumenti per permettere che la vita, emozionale e tangibile, ricominci a fluire.

L’umanità è fragile. “Chi diede la vita ebbe in cambio la croce” è una visione tutta umana di pensare che la morte sia la moneta atta a ripagare un atto di generosità. I medici, gli infermieri morti per salvare delle vite in questo tempo di lutto e dolore riattivano la paura collettiva della caducità, della finitezza dell’essere. I tanti sacerdoti, i tanti anziani che hanno ceduto il proprio respiratore per consentire a qualcun altro di vivere hanno anch’essi dato la vita, ricevendo la croce. Avere in cambio la croce però nell’ottica di Dio, è la promessa della vita eterna. La certezza matematica della non finitezza. Questi gesti eroici permettono anche in questo tempo di distruzione di elaborare un dolore collettivo, partendo dal vissuto personale. Danno al mondo una nuova anima, soffiano sulla cenere della speranza riattivando il fuoco della vita che non vuole spegnersi.

Avere uno sguardo d’amore sulle persone è possibile. Avere la possibilità di lenire ferite invisibili è un dono. Riconoscere che questo dono è uno strumento ricevuto da Dio è umiltà. “Dei morti in battaglia ti porti la voce”… lasciamo riecheggiare la voce dell’amore, lasciamo che le ferite collettive facciano parte consapevolmente di noi. Non chiudiamo la porta al dolore, esso troverà lo stesso il modo per entrare e farà più male. Impariamo ad offrire la sofferenza, impariamo ad offrire i nostri doni. Riscopriamo il sentimento della gratitudine e amiamo senza riserve. L’amore è la forza salvifica che cambia il mondo. Chi è stato amato ami gli altri senza pretese, chi non è mai stato amato non chiuda la porta alla possibilità. Da qualche parte e in un preciso momento l’amore di Dio si rivelerà attraverso un gesto, attraverso uno sguardo.

Ringrazio il Signore, la Vergine Maria Madre della Redenzione di avermi reso consapevole del mio dono particolare. Ogni giorno attraverso i pazienti mi viene data la possibilità di cogliere aspetti dell’umanità ferita dal dolore e mettendo a disposizione le mie conoscenze assisto con lo sguardo da bambina all’opera di Dio che agisce, se abbiamo fede, indegnamente anche attraverso ognuno di noi.

Dr.psych. Caterina Corea
Direttrice del Centro di Riabilitazione Psicosomatica
Klinik Teufen Group
Svizzera